Giovedì 23 alle ore 17:00 presso la Basilica di San Saturnino, Piazza San Cosimo, Cagliari, si terrà il diciasettesimo appuntamento dei “Dialoghi di archeologia, architettura, arte e paesaggio” organizzati dal #MuseoArcheologicoCagliari.
Questa settimana Giovanni Columbu, giornalista e scrittore, terrà un incontro dal titolo “Genesi e realizzazione del film Su Re”.
L’evento sarà trasmesso anche in diretta streaming sul canale Youtube e sulla pagina Facebook del Museo.
Nel Libro dell’Esodo, nell’Antico Testamento, c’è un passo che anticipa un principio che governa anche il cinema. Mosè chiede a Dio di mostrargli la sua Gloria. Ma Dio non accoglie la preghiera di Mosè perché, gli dice, “Tu non potrai vedere il mio volto” e indica a Mosè un luogo nelle cui vicinanze sarebbe passato e passando gli avrebbe coperto gli occhi con la mano, perché, dice Dio a Mosè, “Vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere”.
Anche nel fare un film spesso è necessario “coprire gli occhi” dello spettatore nei momenti in cui transita o si affaccia la presenza di Dio, nei momenti in cui accade quello che non abbiamo mai visto e che non può essere visto e mostrato altro che “di spalle” o da lontano, in campo lungo, o spostando il nostro sguardo e quello del pubblico sui “piani d’ascolto” o “fuori campo” e se possibile in un lasso di silenzio. Affinché nella cesura del visibile e dell’udibile lo spettatore possa invertire la direzione del proprio sguardo e ritrovare in sé stesso la visione dell’inenarrabile.
Questo è il fulcro de “Su Re”. Film di Giovanni Columbu la cui complessità è difficile da riassumere. Racconta la Passione di Cristo, dai Vangeli di Matteo, Marco, Luca, Giovanni, girato in Sardegna, con attori sardi che parlano la loro lingua madre. Dopo Pier Paolo Pasolini e il Vangelo secondo Matteo, è possibile. Columbu, evitando ogni etnocentrismo, riduce al minimo il linguaggio verbale per affidare alla cinesica del corpo l’essenzialità del Calvario di un innocente che salverà il mondo con la sua morte.
L’imago Christi che agisce in sperdute chiese ma pure nelle sontuose ritualità che a Cagliari hanno come quinta scenica i quartieri storici, si invera in un Cristo morto che evoca suggestioni caravaggesche in cui silenzi, canti, cromatismi si fanno sostanza. Nella realizzazione di “Su Re”, l’uso della macchina a mano, senza cavalletto, accoglie ogni perturbazione dell’ambiente e del polso del regista che orienta la macchina da presa verso il soggetto da riprendere, così come potrebbe fare un operatore del tutto ignaro dei principi compositivi.
L’esperienza del vedere non si articola per inquadrature. Il nostro sguardo si adagia su visioni che non trovano riscontro nella grammatica del cinema. Una bella inquadratura dovrebbe essere invisibile. Tutti i singoli fattori che concorrono a fare un film dovrebbero essere invisibili. Musica, recitazione, costumi e regia non si dovrebbero percepire come tali.
Perché dire di un film che ha delle belle musiche o delle belle inquadrature è come dire di un romanzo che ha belle frasi, o di un quadro che ha bei colori. Apprezzamenti che suonano come gentili stroncature. Come per la lingua sarda, solo apparentemente incomprensibile. Ogni lingua ha in sé una visione del mondo. La stessa storia, raccontata in una lingua diversa rivela qualcosa di nuovo. In sardo anche i silenzi sono eloquenti. Le parole irrompono brusche e forti, senza le mediazioni verbali – i “prego”, “vorrei”, “mi scusi” – che altrove mitigano le relazioni tra le persone.
C’è più violenza in apparenza, ma in realtà il sardo è solo privo di maschere. E proprio la sua apparente asprezza richiama un bisogno di amore che non può essere soddisfatto da forme esteriormente gentili.